Con una superficie di 163 km2 l’Isola di Pasqua dista oltre 3.200 km a est dalla costa del Cile (al quale appartiene).
Le temperature annuali, di questa mistica località Cilena, oscillano da un minimo di 15°C ad agosto ad un massimo di 28°C a febbraio, con un picco di acquazzoni stagionali nel mese di maggio; ma è soprattutto l’estremo isolamento dell’isola di Pasqua a esporla ai forti venti che aggiungono a questo clima sub-tropicale una nota di freschezza.
L’isola è una delle mete più famose del Sudamerica. Non senza alcune eccezioni le sue coste sono rocciose, frastagliate e presentano scogliere a picco.
Un tempo ricoperta di maestose foreste, oggi l’isola è quasi priva di piante ad alto fusto riducendosi ad ampie distese di prateria mista a cespugli.
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La geologia dell’Isola di Pasqua
La geologia dell’Isola di Pasqua si fonde con l’elemento che più di tutto l’ha reso famosa negli ultimi 300 anni: la presenza di quasi 1.000 statue di pietra, alcune delle quali arrivano a superare 9 metri di altezza per 80 tonnellate di peso.
Questi grandi monoliti antropomorfi, chiamati moai, non sono rappresentazioni di divinità, ma di grandi capi tribali dell’antica società di Rapa Nui, come i nativi chiamavano l’isola nella loro originale lingua polinesiana. Scolpire ognuna di queste statue significava trasferire il potere spirituale del defunto capo nella pietra così consacrata.
Una volta imprigionata nelle fattezze del moai, questa forza invisibile, chiamata man, avrebbe continuato a proteggere la comunità, ed è questo il motivo dell’orientamento di tutte le statue in direzione di ogni singolo villaggio.
I tre principali coni vulcanici
Questo territorio si struttura intorno a tre principali coni vulcanici ormai spenti.
Il Terevaka (che raggiunge la massima altitudine di 507 metri) caratterizza la parte centrale dell’isola, mentre il Poike e il Rano Kau occupano rispettivamente l’estremo orientale e quello sud-occidentale, con la combinazione geometrica dei tre vulcani a conferire all’isola una forma triangolare piuttosto netta.
Non troppo lontano dal vertice vulcanico collocato più a est, giace l’ulteriore cratere di Rano Raraku, visitando il quale si riesce a comprendere la straordinaria sinergia fra la geologia di Rapa Nui e il suo patrimonio archeologico, unico ed originale in Sudamerica.
Questo cono vulcanico costituisce la vera e propria “fabbrica” di moai, dal momento che proprio dal morbido fianco tufaceo di questa montagna sono state cavate quasi tutte le statue.
Intagliatori specializzati muniti di martelli di basalto ne configuravano la mole e ne scolpivano i lineamenti essenziali.
Quasi 400 statue in diversi stadi di completamento sono ancora oggi ben visibili sdraiate nella cava, rendendo così possibile la ricostruzione del processo di fabbricazione.
Alcuni “semilavorati” testimoniano anche una tendenza alla crescita delle dimensioni dei moai, di epoca in epoca, fino alla ventina di metri.
Una volta staccati i blocchi di tufo dall’ultimo lembo di pietra, le statue moai venivano trascinate, dagli abitanti dell’isola, più in basso con l’aiuto di funi e poi disposte in verticale per lavorarne le finiture.
Il trasporto avveniva utilizzando forse più di una sola tecnica. Si sono dimostrate praticabili sia quelle in modalità orizzontale – con i moai fatti scivolare su tronchi di legno usati come rulli – sia quelle in modalità eretta, con le statue che venivano fatte oscillare in piedi e tenute in equilibrio con due funi laterali e una posteriore.
È in questi termini che si potrebbe spiegare la leggenda secondo cui i moai “camminavano” da soli di notte in virtù di pratiche magiche. Una volta posizionati sulle piattaforme predisposte ad accogliergli, venivano scolpite ai moai le cavità oculari.
Per il bianco degli occhi, che guardavano verso i villaggi, era utilizzata della pietra corallina bianca, mentre la manifattura delle pupille era realizzata con ossidiana nera. Solo al momento della “riapertura” degli occhi incastonati nella statua, il “mana” del capo tribù defunto poteva sprigionarsi a protezione del villaggio.
Statue dell’Isola di Pasqua: i Moai
I moai non erano disposti in posizione isolata, ma venivano collocati entro delle vere e proprie aree cerimoniali, chiamate ahu, che ne accoglievano diversi esemplari.
Il sito di Tahai
Nel sito di Tahai, verso l’angolo sud-occidentale dell’isola, si possono osservare tre distinti ahu, ed è visibile l’unico moai restaurato a Rapa Nui al quale sono state aggiunte delle riproduzioni degli occhi originali.
Poco distante si trova, in un piccolo cratere vulcanico, l’antica cava di Puna Pau. È proprio qui che veniva estratta un’altra varietà di pietra vulcanica, la cosiddetta scoria rossa, caratterizzata da un alto contenuto di ferro.
Questo diverso materiale tufaceo si ossidava molto facilmente, assumendo un tipico colore rossastro, e veniva utilizzato per realizzare dei tozzi cilindri – chiamati pukao – collocati sulla testa di alcuni moai secondo un’interpretazione che li ricondurrebbe a dei copricapi, oppure a un tipo di acconciatura maschile.
Anakena Beach
Sul lato nord-orientale dell’isola si apre una spiaggia dalla sabbia bianca, affacciata su acque turchesi rese più calme da una profonda baia.
Si tratta di Anakena Beach, e costituisce una vera rarità lungo una linea costiera quasi sempre costituita da scogli e pareti rocciose.
Il mito di fondazione del popolo dei moai narra dello sbarco qui avvenuto – in un’epoca collocabile fra il 300 e l’800 d.C. – del fondatore di questa civiltà, Hotu Matuꞌa, che probabilmente proveniva dalle Isole Marchesi e che divenne re di Rapa Nui.
Ad Anakena risiedevano i capi più importanti dell’isola, e i due complessi cerimoniali (ahu) qui visibili sono anche quelli che accolgono imoai più raffinati, tutti muniti di copricapo, contraddistinti da più raffinati lineamenti del viso, dalle mani con lunghe unghie in segno di alto rango e da tatuaggi sulla schiena.
La colonizzazione polinesiana dell’Isola di Pasqua, protrattasi fra il 300 e il 1200 d.C., arrivò a produrre una società avanzata nel giro di pochi secoli, che raggiunse il suo apice culturale intorno al 1400 d.C. con la fondazione di una decina di villaggi quasi tutti distribuiti lungo la costa.
La società era divisa in rigide caste: gli strati sociali subalterni vivevano in semplici capanne o in grotte, i notabili abitavano invece nelle cosiddette “case barca”, dimore caratterizzate da fondamenta in pietra e dalla forma di barche rovesciate.
Ahu Tongariki
A un solo chilometro dalla cava di Rano Raraku, giace il complesso cerimoniale di Ahu Tongariki che accoglie i più giganteschi moai dell’intera isola, alti intorno ai 10 metri, uno dei quali arriva al peso di 86 tonnellate.
La mai sedata conflittualità in seno alla società di Rapa Nui doveva tradursi anche in una crescente ossessione per la costruzione di moai sempre più grandi, ma con conseguenze così gravi per il fragile ecosistema dell’isola da aver fatto parlare di “ecocidio” a proposito del destino di decadenza di questa civiltà.
L’isola fu infatti sottoposta a un progressivo disboscamento, per l’uso dei tronchi d’albero nelle operazioni di trasporto delle statue. Intorno al 1700 un numero via via ridotto di alberi portò a una maggiore erosione del suolo, con conseguente drastica riduzione delle risorse alimentari.
Le carestie provocarono quindi guerre, fino addirittura agli estremi del cannibalismo, con il conseguente collasso della civiltà.
Il 5 aprile 1722 il navigatore olandese Jacob Roggeveen toccò le coste di Rapa Nui, che fu da lui ribattezzata Isola di Pasqua per via della festività che ricorreva proprio in quel giorno. L’esploratore stimò un numero di abitanti fra i 2.000 e i 3.000, ma il clima era già infuocato dalle guerre civili.
Nel 1770 ci fu un altro contatto con navigatori spagnoli che osservarono ancora un gran numero di “idoli eretti”, ma già nel 1774 James Cook diede conto di alcuni moai rovesciati.
Nel corso dell’800 le continue guerre, le prime malattie importate dai contatti con gli europei – e anche razzie dal Perù per catturare schiavi – portarono alla definitiva devastazione della civiltà di Rapa Nui con l’isola che, dopo alterne vicende coloniali, fu definitivamente annessa al Cile nel 1888.
Tutti i moai risultarono abbattuti al termine di questa agonizzante civiltà, e le statue attualmente visibili in piedi sull’Isola di Pasqua sono state tutte ricollocate in posizione verticale nel corso di complesse operazioni di restauro a partire dal 1950.
La gara del Tangata Manu e il culto dell’Uomo Uccello
Quando sarete sull’isola, fatevi narrare la leggenda della competizione del Tangata Manu. Il Tangata manu, che significa “uomo uccello”, era il vincitore di una gara che consisteva nel raggiungere a nuoto uno dei prospicenti isolotti dove un tipo di starna autoctona depositava il primo uovo dell’anno.
Una volta trovato l’uovo lo sfidante doveva tornare a nuoto all’Isola di Pasqua, consegnare l’uovo a un compagno che scalava il Rano Kau fino ad arrivare al villaggio di Orongo.
Il rito celebrava la divinità Makemake, il dio supremo del culto dell’uomo uccello.
La gara era folle e molti concorrenti finivano inesorabilemnte tra le fauci degli squali che infestano queste acque o precipitavano morendo sfracellati durante la scalata.
Attorno al 1850 i missionari Cristiani vietarono il culto.
Dove dormire sull’Isola di Pasqua
Ubicato a circa 8 km da Hanga Roa – principale centro urbano dell’isola, l’hotel Explora gode di una splendida vista che, dall’immediata campagna circostante, consente all’occhio di allungarsi fino alla linea costiera dell’Oceano Pacifico.
Colpisce la sua architettura, che si articola intorno a più strutture circolari sovrapposte e combinate per comporre un ampio edificio su di un unico piano dal vago sapore futuristico. Abbonda l’uso di legno di pino riciclato, mentre il design architettonico favorisce la canalizzazione all’interno degli incessanti e freschi venti, eliminando così l’esigenza di impianti di climatizzazione.
Fra i servizi interni sono disponibili un elegante centro benessere, una libreria e un negozio ma come suggerisce il suo nome, l’hotel è specializzato nell’offrire un’ampia gamma di intrattenimenti esterni che richiedono di solito la prenotazione la sera prima.
Si organizzano escursioni in auto, a piedi o in bicicletta verso i numerosi siti archeologici;ma anche approfondimenti della cultura locale, osservazione di uccelli, di pipistrelli e dei profili geologici ed ecologici del territorio.
Le 30 camere sono suddivise in 26 alloggi di tipo standard e quattro suite di maggiori dimensioni, tutte con una parziale vista mare oltre i campi; e può anche capitare che arrivino a punteggiare questo scenario dei cavalli selvatici intenti a brucare l’erba poco distante.
Nelle stanze si armonizzano un gusto rustico-elegante e uno moderno-industriale, mentre sorprendono soffici letti corredati da lampade orientabili che invitano alla lettura. Lo stesso stile si manifesta in sala da bagno, con la presenza di doppio lavabo e vasca con idromassaggio oltre alla doccia.
La prima colazione resta memorabile per i colori e la fragranza della frutta fresca, fra cui spiccano papaya e avocado, mentre a pranzo e a cena si impiega in buona misura il pesce fresco locale declinato in ricette della cucina cilena, fra cui la ceviche in cui la materia prima cruda è condita con varietà di aromi freschi e speziati.
Non mancano spettacolari piatti di carne della tradizione continentale a base di manzo e agnello – utilizzati anche come ripieni per le tradizionali empanadas – insieme a colorate e ricche insalate.
Isola di Pasqua: Dove si trova?
L’Isola di Pasqua si trova a 3600 chilometri dalle coste del Cile nell’Oceano Pacifico meridionale.
Politicamente appartiene alla regione Cilena del Valparaiso esattamente a 4 ore di volo dalla costa. Il capoluogo dell’Isola di Pasqua è Hanga Roa che conta più o meno 3.000 abitanti. Le lingue ufficiali parlate sull’isola sono lo Spagnolo ed il Rapa Nui. Anche l’inglese è parlato comunemente.
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